La nostra storia

L’Associazione Artistica “Scuola di Aquileia Terrestrità Corale” si è ufficialmente costituita nel 1992, diretta erede del precedente sodalizio, già operante negli anni cinquanta, facendo proprie l’intuizione e le ricerche del pittore Emilio Culiat (Trieste 1902 – Tarcento 1998), prima singolo artista, poi suo fondatore. Questi, consapevole della difficoltà e della responsabilità dei compiti, ha concentrato sempre più la propria azione a “creare” un tangibile mezzo espressivo adeguato, originale. Doveva risultare un “pieno” sensibile, un coerente ed adeguato portatore di quel “vigore” e rigore formale, spirito e senso di una tipica realtà sensibile pittorico-materica. Lo Stile pittorico della Scuola viene presentato a Milano al centro d’Arte “Cultura e Costume” nel 1979, con una mostra di opere “materico formale”.
Il mezzo espressivo usato è il colore ad olio in pasta che per mezzo di spatole e attrezzi adatti viene trasformato in “materico formale”; nell’oggetto realistico finito emerge la forza espressiva della materia. Le tematiche delle opere spaziano dal mondo della natura, dell’attualità con visioni emblematiche del mondo che ci circonda. Un ampia raccolta di quadri del pittore Emilio Culiat sono state donate al Comune Aquileiese in attesa di essere esposte in una sede adatta.

PITTURA E PENSIERO

II linguaggio della scuola di Aquileia imprime una inconfondibile nota di vigore agli oggetti della composizione pittorica. Saranno presto mille le opere della Scuola, accompagnate da diverse pubblicazioni. -La Scuola di Aquileia – Terrestrità Corale, è pittura ed è pensiero.
Quest’ultimo ha avuto modo di concentrare più concetti, in definizioni che peraltro rimandano alle posizioni dello spirito realistico della nostra epoca. Ecco alcuni di questi concetti: «ragione biologica», «le popolazioni si evolvono in Popolo», «struttura epigenetica del cervello», «plasticità dell’evoluzione umana», «sensibilità memorizzata», «concettualità acquisita», “convergenza teilhardiana”, “Noismo” .
Dal nostro patrimonio culturale emerge una matrice: la tipica coscienza che informava le generazioni all’inizio del secolo. Con quale senso ci si richiama oggi ad essa, sapendo che alla trasformazione o all’appiattimento di quella coscienza concorsero due guerre mondiali ed una lunga serie di avvenimenti socio-econominco-culturali che hanno improntato questo secolo?
L’Etologia e la Sociobiologia portano gli uomini ad approfondire l’argomento; un problema investito anche delle pressanti esigenze dei nostri giovani.
Nelle opere della Scuola di Aquileia è sempre presente un sincero stimolo, idoneo a far comprendere ed a rimemorizzare certi valori. Valori diversi dal pragmatismo: il vero è l’utile.
Emilio Culiat


EMILIO CULIAT
Il pittore della terrestrità
(Trieste 1902 – Tarcento 1998)

Gianfranco Ellero

La pittura di Emilio Culiat, creata al di fuori degli schemi riconosciuti, e molto ammirata dal pubblico, non ebbe in Friuli la fortuna che meritava, forse perché Lui la presentava in un contenitore filosofico profetico e oscuro, che faceva risaltare la sproporzione, o comunque l’inadeguatezza, fra i mezzi impiegati (immagini dipinte) e gli scopi dichiarati (coniugare scienza e fede attraverso l’arte per creare un uomo nuovo); oppure perché, dopo il 1960, la provincia aveva abbandonato la pittura di paesaggio, ritenuta ormai superata, demodée.
Non che gli siano mancati i giudizi positivi (negli anni Cinquanta: Decio Gioseffi, Alcide Paolini, Arrigo Bongiorno…) ma certo molti, soprattutto a sinistra e fra gli “addetti ai lavori” (leggasi mercato dell’arte) lo ignorarono o gli espressero generiche espressioni di apprezzamento. Non per questo Culiat, incurante delle mode e dei modi del momento (il passaggio fra i Cinquanta e i Sessanta), smise di indirizzare il suo pennello verso mete lontane, che nel suo cielo brillavano come stelle fisse: l’uomo e la terra, per molti secoli abitata come una casa, da contrapporre a un’umanità trasformata in una banda di ladri stupratori, che la rende inabitabile. Ma certo ebbe a lamentarsi (in alcune lettere e sul “Corriere del Friuli” del novembre 1974) per la disattenzione dei mass-media friulani nei confronti della Scuola di Aquileia (una disattenzione che, come dimostra l’emerografia, non esisteva, ma Culiat si attendeva maggiore assiduità e un discorso critico sulle opere prodotte dalla sua Scuola), e altrettanto fece Marcello De Stefano (“Corriere del Friuli” 15 aprile 1974), che denunciò il mancato riconoscimento del valore di una realtà artistica apprezzata, oltre Livenza, da illustri intellettuali, come Ludovico Geymonat e Silvio Ceccato.
Proprio negli anni in cui l’homo faber stava sopraffacendo l’homo agricola, Culiat, dapprima solo, poi in compagnai di Canci Magnano, infine come Maestro della Scuola di Aquileia, opponeva all’urbanesimo e ai suoi mali, fra i quali spiccava la solitudine figlia dell’individualismo, le visioni di una terra lavorata in coralità: erano quadri che esaltavano un paesaggio nel quale l’utilità si coniugava con la bellezza, e per porsi al di fuori dei canoni dell’arcadia e del romanticismo il pittore aveva addirittura inventato una tecnica personale al fine di conferire alle sue opere il carattere della matericità, o meglio, nelle sue intenzioni, della terrestrità.
Era facile, in un mondo che privilegiava l’industrialismo, l’urbanesimo e il consumismo (anche in campo artistico), scambiare i quadri di Culiat e della sua Scuola per paesaggi fuori tempo e fuori moda, e guardare con riserva, se non con sufficienza, la sua fede in un’evoluzione che avrebbe dovuto produrre un umanesimo integrale.
E’ giusto osservare, tuttavia, che non fu la sua pittura a suscitare talvolta riserve o diffidenza, quanto piuttosto il suo ostinato sforzo di porla in relazione con il pensiero di Teilhard de Chardin. Molto esplicito al riguardo fu Raimondo Melloni, che su “Verona Sera” del 13 maggio 1964 scrisse testualmente: “Si può essere d’accordo (o non) con queste teorie e soprattutto con gli scritti del prete francese abbondantemente citato da Culiat, quello però che non si riesce assolutamente a capire è cosa tutta questa profonda problematica abbia a che vedere con una mostra, che tra l’altro testimonia il notevole valore artistico del medico-pittore, il quale avrebbe le doti per una sicura affermazione nel mondo delle arti figurative se non si ostinasse a confondere la pittura con la sociologia, i pennelli con la macchina per scrivere…”.
E’ altrettanto doveroso ricordare, peraltro, che a Parigi i critici riuscirono a vedere nei quadri del nostro pittore alcuni agganci con il pensiero di Chardin e anche di altri. Paul Chauchard, ad esempio, neurofisiologo e direttore dell’ Ecole des Hautes Etudes di Parigi, scrisse: “…molto interessante questo pittore, che per me evoca nell’insieme e la visione teilardiana e la realizzazione della ricettività del Dr. Victor…”.

Il saggio del 1953

Gli scritti più noti e diffusi del nostro pittore, che per brevità chiameremo teilhardiani, sono in effetti prodotto con un “linguaggio interattivo, pieno di esclamazioni, sospensioni, trasalimenti, parole inventate” (così Carlo Sgorlon nel 1993), e quindi non agevolmente comprensibili e non sempre conciliabili con la sua pittura.
Ma Culiat, prima di entrare in un’aura profetica e millenaristica, sapeva esprimere ordinate e conseguenti teorizzazioni sul tema dei rapporti fra l’artista e la società che lo circonda, come risulta da un saggio su sei pagine, datato gennaio 1953, conservato in bozza nei cartolari della Biblioteca di Aquileia e pubblicato su una rivista non identificata (probabilmente “Momenti”).
Si tratta di un testo fondamentale per capire Culiat, come uomo e come artista: un testo che anticipa e spiega gli sviluppi successivi della sua arte, del quale qui vengono elencati in sintesi i punti focali.
Lo scritto inizia con un assunto: “L’artista ricerca il vero nella forma”, e prosegue affermando che “la creazione devia dai procedimenti della gente comune”.
Si giunge poi a un corsivo sicuramente agganciato ai quadri che andava dipingendo in quegli anni, quelli del “filo spinato”: “L’arte oggi ripropone la necessità di una universale meditazione sulla realtà delle condizioni dell’uomo sulla terra, soprattutto sulle cause del suo dolore!”.
Rifiutando l’idealismo in arte, Culiat dichiara la sua adesione al realismo e il rifiuto dell’astrattismo, liquidato fra parentesi come un genere decorativo: gli artisti arrivati – scrive – “imperterriti continuano a dipingere le passate ombre, scontate storicamente. Gli stessi ora producono opere utili per adornare le pareti, che si vendono, come nell’ultima Biennale [di Venezia, 1952]. Ciò non significa che il pubblico comincia a comprendere la salsamenteria astratta – si comprende l’Arte, non un’arte ! – semplicemente detti quadri “legano” con i mobili moderni, dando il cambio ai vecchi, meno di moda”.
Il neorealismo, tuttavia, che nel cinema e in letteratura aveva raggiunto eccellenti risultati, in pittura rimaneva – a suo giudizio – tendenzialmente descrittivo, perché l’approccio degli artisti al mondo degli umili era avvenuto attraverso le lenti delle correnti politiche che guardavano a quegli strati, sicuramente sofferenti, della società. “Ma la politica dei partiti, loquace negli slogans, oggi, più di difendere, offende l’individuo, nel prossimo. Comunque – ammonisce – è sempre stata una guida pericolosa per l’arte, a motivo delle sue decisioni e programmi, essenzialmente pratici e di parte”.
Era quindi necessario almeno chiarire i rapporti fra realismo e politica, e Culiat acutamente commenta l’intervento di Malenkov apparso pochi mesi innanzi sulla rivista “Realismo (n. 4, 1952).
“La potenza ed il significato dell’arte realistica – aveva scritto il leader sovietico – devono mettere in luce le alte qualità spirituali e le caratteristiche tipiche e positive dell’uomo comune… Tipico non è soltanto quel che s’incontra più di frequente, ma quello che più completamente e acutamente esprime l’essenza e la sostanza del fenomeno sociale. Nella visione marxista-leninista “tipico” non significa affatto una sorta di media statistica…
Solo ponendosi da questo punto di vista sarà possibile cogliere i caratteri della tipicità. Espressione di quanto vi è di più nobile, di più bello, di più rivolto verso l’avvenire in una realtà in sviluppo, in una realtà non immobile e statica, ma vista nel suo sviluppo, nel suo conflitto permanente e dialettico che la sommuove: il conflitto drammatico tra il vecchio e il nuovo, tra ciò che nasce e ciò che muore!”.
“Quanto dice Malenkov è giusto” osserva Culiat. “Lo stato operaio, come viene definita la forma di governo della Russia, è cosa esistente. Il proporre un tema che veda il lavoratore come rappresentante di quello Stato, e che proietti la sua figura verso l’avvenire, è un assunto logico, per quella esistenza… Le sembianze dell’operaio in Russia possono proiettarsi artisticamente come quelle d’un mito; da noi questo è prematuro… Rappresentare per “realtà” un fatto sociale che ha da scontare ancora probabili tragedie, e dipingere l’avvenimento come pura adesione spirituale al tema trattato da Malenkov, non è realtà, sibbene illustrazione d’un idealismo politico o partitico che sta a cuore”.
Si può fare dell’idealismo, in conclusione, anche attraverso il realismo.
Passando poi all’analisi delle opere del neorealismo di quegli anni, Culiat osserva che i pittori rappresentano la classe dei lavoratori come una “coralità”, che “riunisce in un unico suono tutti i sentimenti”: “E’ una poetica che vuole interpretare il canto corale delle masse, ed in pittura il personaggio tende ad essere scarnificato da quanto non concerne il suo aspetto di realtà politica. E’ logico che i partiti politici non si fermino ad un vero che trova ragione solo nella varietà del singolo, ed aspirino piuttosto al tipo che manifesta in sé le caratteristiche di un programma, ragion d’essere, ed in questo senso, realtà del partito stesso”.
Della coralità così definita, scrive il nostro pittore nei panni del critico d’arte, il miglior interprete nella Biennale del 1952 era stato Zigaina, con le sue visioni della Bassa Friulana.
La parola “coralità”, che riprenderà poi infinite volte, ma con diverso significato, apparve per la prima volta in quel saggio del 1953, che contiene anche un’interessante osservazione sul rapporto fra la tecnica pittorica e le possibilità espressive dell’artista:
“A mio parere, nella pittura in genere, ed ancor più in quella realistica, l’impasto pittorico ha un’importanza decisiva nella conquista formale”.
C’è davvero tutto Culiat in quel dimenticato saggio del 1953.

Un realista innovatore

Emilio Culiat, nato a Trieste nel 1902, medico di formazione e di professione, era arrivato tardi alla pittura, verso i quarantacinque anni, e l’aveva scelta non per un nobile hobby ma nella convinzione che l’immagine plastica fosse uno strumento efficace per lanciare determinati messaggi a fruitori disposti alla riflessione se non proprio alla meditazione.
Iniziò a dipingere subito dopo la guerra, quando in Friuli soffiava il vento del neorealismo. Risiedeva allora a Tarcento, terra fertile per la produzione di Anzil e Canci Magnano, ma non adoperò immediatamente l’alfabeto neorealista, anche se si sentiva attratto da artisti che, prendendo le distanze dal naturalismo tardo ottocentesco, adoperavano una rinnovata sintassi per rappresentare la civiltà contadina del Friuli, con i suoi paesaggi antropizzati, i fuochi epifanici, le rogazioni, le sagre paesane e i partigiani che in quel paesaggio avevano lottato per la libertà.
Aveva iniziato, con stile ancora incerto, misurandosi con vedute urbane e paesaggi, come si vide in un quadro intitolato “Via Dante”, datato 1947, conservato in collezione privata ed esposto a Tarcento, nella Villa Moretti, per la mostra “La perla del Friuli” in onore di Vittorio Gritti nel 2006. Di poco posteriore è l’opera intitolata “Dal colle Verzan”, esposta nella stessa mostra, composta con uno stile pittorico più maturo e personale, che avrebbe trovato la sua estrema tensione nelle opere del “filo spinato”.
Nel giro di boa fra i Quaranta e i Cinquanta si impegnò in una serie di sorprendenti “omaggi” ai grandi maestri contemporanei, per esempio “Dalì nello studio di Picasso”, che l’autore considerava come utili esercitazioni e dimostrazioni di abilità.
Ben più importanti e convincenti apparvero, poi, le opere del “filo spinato”, che nel loro esasperato espressionismo volevano porsi come simboli delle spaventose tragedie del XX secolo.
Esaurite le riflessioni sul dolore umano, dopo la metà dei Cinquanta il pittore uscì a sua volta dai campi della sofferenza, circondati dal filo spinato, per cercare nella terra, nella terra lavorata con amore, l’unica via di salvezza, e rivolse il suo sguardo al paesaggio del Friuli rurale. Ciò paradossalmente avvenne proprio quando molti neorealisti stavano abbandonando la rappresentazione del paesaggio per salpare verso altri lidi, chiamati, di volta in volta, astrattismo, informale, geometrismo…
Il primo incontro dello scrivente con la pittura di Culiat avvenne, nel 1958, davanti a un grande quadro intitolato “Stoppie”, in collezione privata udinese, riprodotto nel catalogo “Nove opere sul motivo del filo spinato”. Erano evidenti in quell’opera, dominata da una danza di biche di granturcale (un motivo ricorrente in Culiat), sproporzioni e ingenuità – per esempio, si vedono tre uomini che appaiono molto piccoli rispetto ai coni delle canne di granoturco –, ma lasciò un ricordo indelebile perché ritraeva un mondo ad un tempo statico e stranamente dinamico, in una luce molto forte, rasserenante per la sua forza e anche inquietante per la sua freddezza. Le stesse biche anziché di canne di granoturco sembravano costruite con rami d’albero piuttosto grossi, e tuttavia flessuosi.
Alla domanda: “Chi è l’autore?”, il proprietario rispose affettuosamente: “Chel mat di Culiat”.

Dal “Filo spinato” alla “Terra fatica degli uomini”

Come avvenne, fra i Cinquanta e i Sessanta, il passaggio dalle opere del “Filo spinato” a quelle della “Terra fatica degli uomini”, cioè al paesaggio ricostruito dall’artista dopo gli oltraggi della guerra e le offese del “miracolo economico italiano”?
La domanda può ottenere risposta dalle parole dello stesso Maestro, che, nell’autopresentazione sul catalogo della sua prima mostra personale, svoltasi a Trieste nel febbraio del 1956, scrisse testualmente:
“La serie dei quadri del “Filo spinato”, una trentina, assume un carattere di violenta denuncia contro certe condizioni umane in cui si trovarono gli uomini alla fine di due guerre mondiali.
Tra il sogno di libertà e la vita non si è registrata la promessa “comunicazione”; esiste ancora il “Filo spinato”; questo strumento brutale della nostra società che, visibile o no, sopprime nell’uomo l’ansia di libertà che ha nel cuore! […].
La mia pittura – si dice – è emozione gridata e rompe con un gesto d’inconsueta libertà […].
Una visione che non è certo l’urlo espressionistico [chiara allusione al celebre quadro di Munch] nel suo mondo in disintegrazione, dal momento che, attraverso un massiccio paesaggio, prende sviluppo una posizione costruttiva, un impianto a linee fondamentali, in cui [tanto] l’oggetto quanto la figura umana, sono sempre presenti per l’artista e nell’opera, come sempre è avvenuto nella tradizione del passato. […]
Nel 1951 [data della prima mostra sindacale degli artisti friulani], quando il neorealismo in pittura era soltanto un “verniciato”, cioè pura e semplice tendenza all’iperbole illustrativa, in “Arte, artisti e vita pratica” annotavo: “… rappresentare l’umile lavoratore è un incontro d’interesse socialmente attuale, ed è lecito, in un primo momento, il cenno illustrativo dell’avvenimento. Subito dopo però, l’incontro deve farsi dialogo, discorso, e l’interesse dell’artista non sarà limitato a “come veste l’umile”, ma si chiederà cosa palpita sotto quei panni: le sensazioni dell’artista, nell’incontro con la realtà umana, dovranno risultare vive e visibili.
Travaglio, dunque, non fredda ammirazione; travaglio marcato dal dolore, per una emozione che proviene dalla partecipazione a fatti determinati.
Ma il mio mondo non si è fermato ad un ripensamento di episodi crudeli. Sentimenti non più disumani mi agitano; piuttosto il quotidiano e reale cammino della fatica, le piccole e vissute gioie e speranze degli uomini. La forma che in principio erompeva, come una tragica maschera gessosa, tra fili spinati, si dispiega, compone meravigliata il paesaggio; poiché in vero si cerca, e questo è un punto fermo, di parlare con una pittura che vuole avere la voce e il calore di un inconfondibile tempo, fatto pure di avvenire”.
Ed ecco l’illuminante giudizio che Decio Gioseffi espresse nel novembre del 1956: “C’è quindi un gruppo di opere (intorno a un “centro di raccolta”) nel quale, contenutisticamente, i motivi del “filo spinato” sembrano fondersi con i motivi paesaggistici della serie più recente: in realtà essi sembrano aderire in modo abbastanza stretto alla serie paesistica cui paiono cronologicamente vicini. Sembrano aver superato i motivi contingenti della propria rivolta: sono paesaggi aspri e spettrali, paesaggi verdi e distesi, ma sempre intinti di un loro roccioso squallore, immersi in una cupa solitudine che presuppone la presenza dell’uomo, ma dell’uomo solo. Non c’è nulla che rassomigli all’idillio campestre in questi quadri di stoppie e covoni: presuppongono l’attiva presenza dell’uomo che non riesce a trovare l’evasione dai suoi problemi e dai problemi della società”.
In effetti i quadri del filo spinato erano manifesti del dolore, caratterizzati da un espressionismo persino eccessivo
(e dunque squilibrato sul piano dell’estetica) da contrapporre (almeno in senso filosofico) a quelli dei neorealisti, che Culiat considerava illustrazioni per manifesti ideologici. Oggi noi sappiamo che dall’ideologia dei neorealisti impegnati in politica nacque una poetica, condivisa, in Friuli, anche da artisti di diverso orientamento ideologico.
Lo stesso Culiat, del resto, prese le mosse dal paesaggismo che caratterizzava il neorealismo friulano, come bene si vede nel quadro in precedenza descritto e commentato, per inventare dapprima un suo “neorealismo espressionistico”, così definito da Decio Gioseffi, e procedere poi a una decantazione maturata alla luce del pensiero mistico-scientifico di Teilhard de Chardin.
Ritornando a considerare l’argomento trent’anni più tardi Culiat, nelle vesti di venerato Maestro della Scuola di Aquileia, dichiarò – a pag. 150 del volumetto “Ritorno al Centro”, datato giugno 1986 – che mentre in poesia, grazie a Pavese, Scotellaro, Accrocca e altri il neorealismo aveva trovato lo strumento adatto al rinnovamento, cioè “il verso vigoroso per accreditare i contenuti sociali coinvolgenti”, in pittura non aveva adoperato “espressioni formali adeguate ai temi svolti” e, quindi, non aveva saputo evitare i “pericoli del cartellonismo, del ‘verniciato’, di versioni troppo letterarie o viscerali”, attribuendo a se stesso il merito del passaggio “dal materico informale al materico formale, per creare un “oggetto” vigoroso e rigoroso, fisico, come il raggiunto verso della poesia neorealista”.
Era Lui, in conclusione, l’unico vero neorealista in pittura, e la Scuola di Aquileia era stata fondata “per dilatare le possibilità di un mezzo espressivo raggiunto a linguaggio corale, con lo scopo di caratterizzare ed accompagnare la vicenda umana all’inizio di una lunga stagione evolutiva, inserita in uno spirito ed attività definibili come Realismo”.

Il manifesto del 1965

Decisivi furono nella parabola artistica di Culiat gli anni Sessanta. Significativo, al riguardo, e rivelatore risulta l’opuscolo “Sensibilità e ragione” del 1962, che contiene un suo saggio illustrato con riproduzioni di opere di sua mano e di altri tre colleghi: Enrico De Cillia, Sergio Altieri e Ugo Canci Magnano, pittori sensibili al paesaggio friulano e tecnicamente inclini alla “matericità”. Palese, anche nel titolo, lo sforzo di coniugare le due fondamentali componenti psichiche dell’uomo, per imbrigliare e controllare l’irrazionalità, che Culiat chiama “sensibilità”, con la razionalità, che in pittura si realizza con il “realismo”.
Egli scoprì poi la “visione” del mondo e della storia di Teilhard de Chardin, il grande gesuita e paleontologo francese, assunta come pensiero-guida dal Centro Ricerche e Studi di Udine, animato da Marcello De Stefano, e si dedicò alla ricerca, fra i pittori friulani, di quelli che più e meglio avrebbero potuto condividere le sue idee anche sotto il profilo tecnico, i già citati De Cillia, Altieri e Canci, ma alla resa dei conti soltanto l’ultimo dei tre rimarrà al suo fianco per qualche anno, partecipando anche ad alcune mostre allestite in grandi città italiane..
L’esperienza artistica e culturale di quegli anni è ben documentata in una serie di esili fascicoli, stampati dalle Arti Grafiche Friulane di Udine (in quel tempo in via Treppo, nei locali della Curia arcivescovile), che nel loro complesso costituiscono un preziosa raccolta emerografica, compilata dal Maestro con grande lealtà, includendo anche i giudizi negativi o le riserve dei critici.
I fascicoletti, in totale 31, pubblicati fra il 1963 e il 1970, sono preziosi anche perché contengono le riproduzioni in bianco e nero di numerosi quadri esposti nelle varie sedi, e talvolta testi desunti da lettere private o dai registri delle firme, ma non sono di agevole lettura perché, in assenza di un preciso e coerente criterio grafico, non è sempre agevole distinguere un pensiero di Culiat da una citazione di Teilhard de Chardin o di altri. E particolarmente oscuro o criptico, almeno per chi non conosce le opere di riferimento, risulta il manifesto contenuto nel n. 20, datato Milano, aprile 1965, firmato da Marcello De Stefano ed Emilio Culiat a nome del Gruppo Teilhardiano di Udine, che si dicono “operanti artisticamente nello spirito di Chardin” per concorrere alla nascita dell’uomo integrale.
Nel punto primo i firmatari dichiarano la loro opposizione “al concetto di arte esclusivamente irrazionale in quanto circoscritto a un periodo storico ormai concluso ed esaurito” e affermano “la validità della componente razionale”; nel secondo riconoscono la validità degli “strumenti lasciatici dai Pollock, Fautrier, Wols, ecc. e gli analoghi antitradizionalsti degli altri campi artistici” ma ricordano che “mai sono stati prettamente tecnici”, e alla fine propongono una “pittura di convergenza” per superare “una tendenza sovraintuizionistica di natura neg-entropica”!

L’apostolo della “terrestrità”

Alla mostra di Milano e al discorso di Marcello De Stefano sui Punti programmatici del Gruppo udinese, dedicò cinque colonne Leonardo Borgese sul “Corriere della Sera” del 30 aprile 1965, ma più per contestare l’uso delle idee di Chardin che per commentare le opere in esposizione: “Molto simbolismo dunque in tal pittura, evoluzionistica-religiosa-socialista; e talvolta vien certo da pensare alla terrestrità, alle onde di terra e di cielo e alla pietà terrena, sociale, religiosa di Van Gogh…”. Alla fine il critico riconosceva l’aura “cosmica” della pittura di Culiat, ma fu severo sul piano filosofico.
“Gli scritti di Culiat, e di suoi amici, abbondanti e insistenti, – scrisse – appaiono entusiastici, caldi, sinceri, ma al tempo stesso oscuri. Sarà meglio, per chi desideri approfondire l’argomento, consultare questi libri”, e fornì quattro titoli. Affermò infine con ironia: “Il gesuita proibito dal Sant’Ufficio – a dir vero sconsigliato appena e con estrema tolleranza – diventa così il patrono di artisti provinciali eppure, forse data la loro provincialità e terrestrità, pieni di fervore rivoluzionario, no: evoluzionario”.
Meno severo, in campo filosofico, si dimostrò Marziano Bernardi in occasione della mostra di Torino. Su “La Stampa” del 19 gennaio 1966, dopo aver illustrato il pensiero chardiniano, al quale dichiarava di ispirarsi Culiat nella “presentazione austera” dell’esposizione, conclude con due periodi che devono essere riletti:
“Se abbiamo ben capito, è qui, è dalla teilhardiana associazione di forme viventi costituenti l’Universo, che muove con convinzione fermissima l’arte che il Culiat chiama “di convergenza” e che egli propone come l’equivalente visivo di una “morale d’azione”. Non è affar nostro discutere la validità filosofica del geologo, paleontologo e pensatore che fu definito “il più grande e forse unico genio cristiano del nostro tempo”. E nemmeno sviscerare il modo in cui cotesta filosofia si concreta fisicamente nelle forme plastiche del nostro pittore. Ciò sarà fatto questa sera in un dibattito al “Circolo della Stampa”, dove è promesso l’intervento dei professori Silvio Ceccato, Giorgio Dei Poli, Carlo Sirtori, Marcello De Stefano. Vediamo invece le pitture della mostra.
Colpisce anzitutto la loro tecnica, d’uno spessore e densità di pasta cromatica che in certi punti, specie nei primi piani, si modella a guisa di un rilievo. Guardando questi paesaggi che, anche se di piccole dimensioni, destano un’impressione di vastità sconfinata ottenuta con rigide leggi prospettiche, si avverte davvero un senso (che non è esagerato dire “cosmico”) di meditata costruzione, anzi di ideale ricostruzione del concreto lembo di mondo che il pittore ha sott’occhio e sul quale intende attuare un “ricupero della terrestrità”. Ogni particolare naturalistico è inciso e sbalzato con implacabile evidenza, eppure con una immedesimazione pànica nella realtà ottica, che liricizza straordinariamente l’inerte dato oggettivo. Se con la sua “arte di convergenza” il Culiat si propone di dare alla casuale informe natura un ordine, una disciplina morale, non v’è dubbio che il suo scopo è raggiunto in parecchi di questi originalissimi dipinti”.
A Parigi, nell’aprile del 1967, Jean Chabanon su “Le peintre” n. 344, scrisse: “… Emilio Culiat tenta di fondere l’elemento “terra”, il motivo agricolo, con il pensiero (almeno qualcuno) di Teilhard de Chardin. Programma ambizioso che oltrepassa il fine della pittura, cosicché in ultima analisi non conta. […] I quadri, densi e scavati, sobriamente colorati ed uniformemente composti, si assomigliano o quasi, da ciò una grande monotonia”. Ma Renée Carvalho, sulla “Revue Moderne” di luglio, vide nelle opere di Culiat “una forma poetica che associa il ricordo di Virgilio ai principi della grande filosofia cattolica, nel suo attuale senso ecumenico”. E altri furono i giudizi positivi mietuti in terra di Francia.
La pittura, sicuramente, non è uno strumento adatto per fare o applicare filosofia, e questo vale in generale; ma è altrettanto evidente che le idee di Teihard de Chardin, forse talvolta impropriamente esposte sui cataloghi, hanno acceso di ideali e speranze l’animo e la sensibilità di Culiat, modificando il suo modo di dipingere e il suo oggetto d’attenzione.
Carlo Sgorlon, in un articolo del 1993, scrisse al riguardo: “Culiat è anche un teorico, che fa tutt’uno con l’artista. Ha scritto degli opuscoli, dove non bisogna farsi impressionare dal linguaggio interattivo, pieno di esclamazioni, sospensioni, trasalimenti, parole inventate, per esempio “noismo”… Bisogna guardare alla sostanza. Bisogna guardare ai suoi quadri, dove la campagna è dominata da un sogno e da un’utopia di ordine e di armonia, che ricorda quella degli architetti del Rinascimento, quando immaginavano una città ideale e totalmente umana. Una terra interamente umanizzata, per la quale del resto, è necessario un uomo completamente terrestre, inserito sacralmente nella terra, di cui è figlio. Sono queste soltanto alcune delle ragioni per cui mi sembra che Culiat sia l’artista friulano che con esiti forti e maggior convinzione ha interpretato l’attuale emergenza universale del nostro pianeta”.

La “Charta naturae 1970”

Concluso il lungo iter delle mostre degli anni Sessanta, Culiat sentì l’esigenza di trasmettere ad altri il suo modo di produrre arte, e fondò la Scuola di Aquileia, alla quale si dedicò con tutte le sue forze fino alla fine.
I primi risultati ottenuti dalla Scuola furono esposti al Circolo della Stampa di Trieste nella primavera del 1970, nell’ambito delle manifestazioni indette in collaborazione con l’Assessorato regionale all’Agricoltura, allora diretto dall’assessore Antonio Comelli, nell’Annata europea di conservazione della natura.
Al symposium del 29 aprile, che si svolse nella sede del Circolo, in Corso Italia 12, sotto il titolo di “La Terra e l’Uomo”, parteciparono Gianni Bartoli, Carlo Sìrtori, Lucio Susmel, Silvio Ceccato, Giovanni Haussmann ed Emilio Culiat.
Presentato sul dépliant come “pittore della terrestrità”, fondatore della “Coralità di pittori friulani” (primo nucleo della Scuola) e Presidente del Comitato promotore delle manifestazioni indette nella nostra Regione per l’annata europea della conservazione della natura, Culiat parlò sul tema: “Coralità di pittori friulani. Recupero della terrestrità”, e nel pomeriggio di quello stesso giorno riferì, nell’ambito di una tavola rotonda, i risultati del referendum indetto per giungere alla formulazione della “Charta naturae 1970”.
Dal dépliant diffuso per la circostanza sappiamo che la mostra dei pittori della “Coralità” sarebbe rimasta aperta al pubblico nello stesso Circolo fino al 6 maggio, giorno in cui puntuale apparve su “Il Piccolo” l’articolo di Giulio Montenero.
“… Emilio Culiat si formò attraverso una spontanea convergenza verso le istanze umane più che politiche degli artisti friulani del dopoguerra. Presto Culiat rifiutò l’eloquenza e il simbolismo e abbandonò la figura umana. Dopo un breve periodo informale che gli consentì di appropriarsi dei ferri del mestiere – una parlata materica, ricca di umori asciugati dal sole, atta a ricostruire la terra sul quadro, più che a rappresentarla – giunse alla fase attuale… In distanza sembra un paesaggio tradizionale prospettato verso il lontano orizzonte. Ma più ci si avvicina e più ci si accorge che le distanze sono state distrutte, essendo la composizione strutturata per parti distinte in una verticalità assoluta, sino al momento in cui si scoprano le caratteristiche del bassorilievo cromatico, varie per le infinitesime rugosità e per sottili striature di colori puri di estrazione divisionistica. La pittura ebbe molto successo in Italia e specie a Parigi, dove fu esaltata dalla critica”.
Queste notizie, riprodotte nel numero 30 dei “quadernetti”, sono preziose perché ci consentono di conoscere alcune importanti verità.
Culiat, nel passaggio dai Sessanta ai Settanta, si sentiva in sintonia non soltanto con la filosofia di Chardin, Fromm e altri, ma anche con la campagna ecologica della Comunità Europea, alla quale aderì con entusiasmo e si impegnò fino al punto di presiedere il Comitato promotore delle manifestazioni triestine.
Quello fu il fertile contesto ideologico, culturale e politico nel quale concepì e realizzò la sua Scuola, che presentò al pubblico nella cornice del Circolo della Stampa di Trieste sotto la denominazione provvisoria di “Coralità di pittori friulani”, impegnati peraltro nel “Recupero della terrestrità”. Dopo qualche tempo, ma non sappiamo quando, la parola Aquileia avrebbe preso il posto del Friuli e il sostantivo “coralità” si trasformò nell’aggettivo “corale” da posporre alla “terrestrità”.
Colpisce, infine, sull’ultima facciata della copertina del quaderno n. 30, un poetico slogan stampato accanto a un globo stilizzato con pochi meridiani e paralleli: “Terra, oasi del cosmo, da rispettare, da amare”.

La Scuola di Aquileia, Terrestrità corale

Non sappiamo perché il Maestro avesse scelto il nome di Aquileia per la sua Scuola. Al di là di motivi logistici contingenti (attenzione per le sue parole da parte degli amministratori locali, disponibilità di spazi al coperto, per esempio), Culiat era sicuramente attratto dall’antichissima radice di una città che nacque e brillò in una regione formatasi per sintesi delle principali culture dell’Europa: una radice rappresentata dalla stele dei buoi che tracciano il solco di fondazione, ma anche dal sincretismo emergente dai mosaici teodoriani, nei quali la simbologia dei culti misterici orientali fu letta in chiave paleocristiana. (Era talmente attratto che, al fine di prolungare i suoi soggiorni in Aquileia, vi aprì uno studio medico e curò gratuitamente gli alunni delle scuole locali).
Fu là, dapprima nei pressi del Museo di Monastero, poi in piazza del Capitolo, infine al ponte delle Vergini che Egli accolse intorno a sé un gruppo di devoti allievi (caso raro l’andare a bottega, nel nostro tempo) con i quali volle condividere non soltanto una visione dell’uomo e della storia, ma anche una tecnica pittorica: in quella Scuola anche la pittura fu praticata coralmente, in sedute comuni, con una tecnica “materica” adottata da tutti, avendo per modello da ritrarre il paesaggio lavorato da uomini che vedono nella terra una madre, non una landa da depredare.
La Scuola creò in tal modo una cifra stilistica comune, che Culiat definiva “Stile” (spesso, nelle pubblicazioni, con l’iniziale in maiuscolo o a caratteri cubitali), utile per connotare tutte le opere prodotte sotto la guida del Maestro. E’ per questo che, viste con occhio allenato al capriccioso individualismo degli artisti del nostro tempo, le opere della Scuola di Aquileia apparivano poi “tutte uguali” e quindi monotone (un appunto già mosso a Culiat anche Parigi, come sappiamo, in occasione della sua personale nel 1967), ma ciò che contava – per il Maestro e gli allievi – era il messaggio da lanciare, non l’affermazione delle singole individualità artistiche, come accedeva, in campo religioso, nei monasteri.
Quali i caratteri tecnici ed estetici della “pittura di convergenza”?
Inizialmente la Scuola, formata intorno al ristretto gruppo denominato “Coralità di pittori friulani”, era aperta anche ai giovani di Aquileia, che potevano praticare la pittura, anzi quella pittura, se erano capaci di accettare una disciplina quasi conventuale, che imponeva frequenti sedute comuni in Aquileia, (anche tre per settimana nel periodo primavera-estate) durante le quali era praticata la discussione su temi filosofici, la pittura serenamente discussa e criticata nel suo farsi e talvolta la pittura a più mani sulla stessa opera.
Il grande quadro (m 2 x 4) intitolato “Capitolato colonico Minut, 1920”, che campeggia nella sede del Municipio di Aquileia, ad esempio, fu eseguito da undici artisti: Massimo Baccan, Giuseppe Colpo, Emilio Culiat, Luigi Goat, Basiliola de Leitenburg, Paola Magrin, Ornella Moro, Erminio Rigonat, Rino Soldat, Dolores Suligoj e Nucj Nedelcev (che più tardi si firmò Anna Maria Treppo).
“Il quadro – scrisse il Maestro nel libretto del 1982 – rappresenta una raggiunta espressione di pittura realistica, eseguita con lo stile della Scuola di Aquileia ed è un capostipite, ossia la prima documentazione storica di una realizzazione creativa “corale”, in una pittura di tipo realistico”. (L’opera è ispirata da un evento storico, il patto colonico stipulato da Zuan Minut, sindacalista e poeta civile in lingua friulana, nel 1920).
I caratteri della pittura praticata in gruppo erano il simbolismo, sempre implicito e talvolta dichiarato nei titoli, come nel quadro di Culiat intitolato “Le due madri” (in primo piano una donna in avanzata gravidanza e sullo sfondo la “terra fatica dell’uomo); la visione prospettica, “a volo d’uccello”, del paesaggio che, complice il colore, dà sempre un senso di infinità e di mistero; infine la matericità che, come sappiamo, Culiat mutuò dall’informale per trasferirla al formale al fine di conferire “realismo”, anzi il vero realismo, alle immagini create da lui stesso e dai suoi allievi.

La straordinaria esperienza di un gruppo aperto

Come si entrava nella Scuola di Aquileia?
A Culiat non interessavano pittori già noti e affermati, ancorché bravi nell’assecondare le loro capricciose fantasie.
Il Maestro cercava e accoglieva soltanto persone che condividessero la sua visione del mondo e della storia e sapessero impegnarsi non soltanto in una severa disciplina pittorica, da praticare “coralmente”, ma anche in frequenti incontri e sedute comunitarie. Basti pensare che a pagina 155 del libretto “Ritorno al Centro”, si legge che la Scuola di Aquileia – Terrestrità corale, fondata nel 1970 con sede in piazza Capitolo 5, “svolge la sua attività, dalle 11 alle 18, ogni martedì, giovedì e sabato tutto l’anno. Nel periodo estivo, da giugno a settembre (incluso), ogni giorno, in sede, con il medesimo orario, è aperta al pubblico una mostra delle sue opere”.
Non è difficile immaginare il carico di lavoro del Maestro, quasi sempre presente, e dei membri più determinati nel seguirne gli insegnamenti, ed è evidente che gli allievi frequentanti si configurassero come un gruppo aperto, che periodicamente si sfoltiva per abbandono.
Basandoci sui ricordi dei rimasti, che ancora si incontrano di sabato nella sede del “Ponte delle Vergini”, possiamo dire che “molti furono i chiamati, pochi gli eletti”: ci fu, infatti, un ricambio fra gli allievi, ovvero una selezione naturale, anche perché la tecnica materica scelta dal Maestro e imposta alla Scuola quale strumento dello “stile”,
richiedeva molto tempo per l’esecuzione delle opere, che dovevano essere realizzate per successive sovrapposizioni di strati di colore, plasmabili in rilievo soltanto in determinate fasi di asciugatura, naturalmente variabili di stagione in stagione.
Come si dipingeva nella Scuola di Aquileia? Ecco le parole del Maestro, scritte su un dépliant pubblicato per il decennale della fondazione:
“La Ragione Biologica si è dimostrata di essere un passo sempre più in là delle ideologie: corrisponde allo sviluppo integrante, armonioso della ragione con la sensibilità. Lo Stile della Scuola di Aquileia: le sue regole sono il mezzo espressivo scelto dai pittori della coralità. Le opere vengono impostate, stimolate e finite in comune accordo, mantenendo ciascun pittore la propria caratteristica esecuzione personale. Ogni opera creativa viene giudicata efficiente da tutti a garanzia dei meriti d’una coralità e dello Stile.
Il mezzo espressivo non è una tecnica sofisticata, semplicemente il colore ad olio viene condensato sino ad ottenere una pasta.
I pittori della Scuola di Aquileia sono tali in quanto sono impegnati a seguire dette impostazioni artistiche”.

Gli allievi della Scuola di Aquileia

La Scuola non teneva un registro delle iscrizioni e delle presenze, e per questo noi oggi non sappiamo quanti la frequentarono. Rifacendoci a qualche catalogo pubblicato negli anni Ottanta e Novanta, possiamo conoscere soltanto i nomi degli allievi più assidui e fedeli, che furono presentati anche in mostre importanti.
Nel libretto “Scuola di Aquileia – Terrestrità corale 1970-1982” si leggono i nomi dei membri della “Coralità di pittori friulani” che dal 1970 formavano il primo nucleo della Scuola: Dino Bon di Colugna, Carlo Fabbro di Moggio, Claudio ed Ennio Feruglio di Feletto, Toni Mansutti ed Ermes Pividori di Reana del Rojale, Luigi Sant di Cassacco, Enrico Sapienza di Udine, Regina Nicoletti e Renato Ustulìn di Aquileia, che parteciparono ad alcune mostre collettive in Friuli e contribuirono a far conoscere lo “stile”.
Nel 1973 a Udine, in Sala Ajace, presentati da Silvio Ceccato, che illustrò il passaggio “dal futurismo alla terrestrità corale”, apparvero in una mostra collettiva i membri fondatori della Scuola: Bon, Culiat, Del Gobbo, Claudio ed Ennio Feruglio, Mansutti, Nicoletti, Rigonat e Sant. Accanto a loro gli allievi: Patrizia Bosco, Tana e Umberto Castellaccio, Francesca Cecchetto, Luciana Dri, Marco Fonzari, Claudio Furlan, Andrea Faidutti, Loranzo Fratta, Silvia Gottardo, Roberto Jacumin, Andrea Lepre, Franco e Mario Nicoletti, Gianni Miani, Daniele Nocent, Marcello Pozzar, Alessandro, Dario e Livio Puntin, Maddalena Russo, Maurizio Sverzut, Maurizio Sandrin e Irene Zoratti.
Nell’ottobre 1974 nella galleria del Centro Friulano Arti Plastiche esposero Dino Bon, Emilio Culiat, Giuseppe Del Gobbo, Erminio Rigonat, Luigi Sant, Claudio ed Ennio Feruglio, Toni Mansutti, Regina Nicoletti, Erminio Rigonat e Luigi Sant, assieme a “undici giovanissimi allievi della Scuola di Aquileia: Luciana Dri, Roberto Jacumin, Franco e Maria Nicoletti, Marcello Pozzar, Ivan Razza, Maddalena Russo, Maurizio Sandrin, Daniele Stabile, Maurizio Sverzut, Paolo Zorba”.
Alla mostra di Milano, nel marzo 1979, accanto a Bon, Colpo, Culiat, Del Gobbo, Goat, Nedelcev, Rigonat e Soldat, troviamo alcuni alunni indicati con il solo nome di battesimo: Cristina, Dolores, Marialuisa, Marco, Michela, Ornella, Paolo, Robertino e Sandra. Nel catalogo Culiat presentò la Scuola con queste parole:
“La Scuola di Aquileia Terrestrità Corale è pittura ed è pensiero. Quest’ultimo ha avuto modo di concentrare più concetti, in definizioni che peraltro rimandano alle posizioni dello spirito realistico della nostra epoca. Ecco alcuni di questi concetti: “ragione biologica”, “le Popolazioni di evolvono in Popoli”, “struttura epigenetica del cervello”, “plasticità dell’evoluzione umana”, “sensibilità memorizzata”, “concettualità acquisita”, “negentropia umana”, “convergenza teilhardiana”, “Noismo”…”.
Questo, infine, l’elenco degli artisti della collettiva di Tarcento nel 1988 (palazzo Frangipane 25 giugno – 18 luglio): Massimo Baccan, Emilio Culiat, Luigi Goat, Basiliola de Leitenburg, Arturo Macor, Paola Magrin, Dolores Suligoj, Nucj Nedelcev Treppo, Rino Soldat.
Sull’ultima pagina del catalogo Culiat scrisse che la mostra era un’occasione “per constatare come un inconfondibile stile, un mezzo espressivo originale, accompagni, passo per passo, la vicenda umana con una nuova “corale”, poeticamente intonata ai sentimenti di tutti. Vigore e rigore consapevoli, confluenti in quella ipotesi futura, ormai consone alle caratteristiche aperte dal nuovo Evo: l’evoluzione planetaria delle specie umane, non una nuova Babele”.
Sono concetti espressi anche in una lettera inviata da Culiat alla Provincia di Gorizia (Biblioteca di Aquileia, fascicolo PL 1001-1200), per render noto che la Scuola di Aquileia, con atto notarile (rogito del dott. R. Riccioni del 2 settembre 1992) aveva assunto “un preciso ruolo ufficiale”: “…da questo atto ufficiale viene, oltretutto, di più messa in luce una creazione e priorità assoluta in arte: un mezzo espressivo, prima inesistente in pittura, ora capace di affiancare l’evoluzione planetaria del futuro umano, che delinea un nuovo Evo, il Postmoderno”.
Il pittore e filosofo Emilio Culiat, dieci anni prima della sua morte, era già proiettato oltre il 2000, verso il nuovo Evo, che avrebbe condotto l’umanità verso il “Punto Omega” profetizzato da Teilhard de Chardin.
Culiat, scrisse Carlo Sgorlon sul “Messaggero Veneto” del 10 ottobre 1993, “crede che l’universo, la terra, gli esseri viventi e l’uomo tendano tutti insieme al punto Omega, ossia a un’arcana identificazione con il Cristo. Nessuno può essere convinto fino in fondo che ciò si verificherà per davvero. Ma avere una speranza e una meta, in tempi vuoti e nichilisti come i nostri, è una fortuna più preziosa di qualunque tesoro”.


CULIAT Bibliografia
Giornali e riviste

L’emerografia del periodo 1956-1970 è contenuta in: E. Culiat, La pittura di Emilio Culiat vista dalla critica, quaderno n. 30, Arti Grafiche Friulane, Udine 1970 (fonte consultabile nella Sede della Scuola di Aquileia e nell’archivio del Centro Friulano Arti Plastiche di Udine).
Ecco i contenuti dei singoli opuscoli o “quaderni”, stampati dalle Arti Grafiche Friulane di Udine negli anni 1963-1970, con l’avvertenza che i “numeri” 28 e 29 risultano mancanti e quelli contenenti soltanto scritti di Emilio Culiat (1, 12, 17, 19, 20, 22, 26) sono stati attribuiti all’apposita sezione:

D. Gioseffi, La mostra di Emilio Culiat, quaderno n. 2, Trieste, novembre 1956
A. Bongiorno, Pessimismo e dolore. La pittura di Culiat, quaderno n. 3, Udine aprile 1955
A. Chersevani, Il pittore Emilio Culiat…, quaderno n. 4, Trieste 1956
M. Cerroni, Volto multiforme della pittura friulana, quaderno n. 5, Udine maggio 1955
M. Mitolo, Lettera da Bari, quaderno n. 6, Bari maggio 1957
M. De Stefano, Lettera da Roma, quaderno n. 7, Roma dicembre 1962
A. Paolini, Lettera da Udine, quaderno n. 8, Udine gennaio 1963
L. Morandini, Una testimonianza d’impegno, quaderno n. 9, Udine febbraio 1963
AA. VV., Mostra alla Galleria Vinciana (con Ugo Canci Magnano), quaderno n. 10, Milano maggio 1963. Lettere e recensioni di L. Borgese, M. Portalupi, I. Scarani, A. Natali, D. Villani, A. Raini, M. Lepore, R. De Grada, E. Gian Ferrari
G. Zanella, Emilio Culiat, quaderno n. 11, Milano gennaio 1964
AA. VV., Il ricupero della terrestrità alla Galleria La Perla (con Ugo Canci Magnano), quaderno n. 13, Arti Grafiche Friulane, Udine 1964. Stralci dalle recensioni di O. Sacco (Messaggero Veneto 3 marzo 1964), A. Paolini (Il Gazzettino 12 marzo 1964), R. Bertacchini (Il Resto del Carlino, Modena 6 febbraio 1964), C. Bettelli (L’Avvenire d’Italia 13 febbraio 1964)
G. Francioni, Il riconoscimento della terra nella pittura di Emilio Culiat, quaderno n. 14, Modena febbraio 1964
AA. VV., Ricupero della terrestrità all’Arte Galleria, quaderno n. 15, Ancona aprile 1964. Testi tratti dalle recensioni di C. Verde (Il Resto del Carlino, Bologna 25 aprile 1964), F. Bugarini (Voce Adriatica, Ancona 5 maggio 1964) ed Etrusco (Il Tempo, Roma 12 maggio 1964)
AA. VV., Ricupero della terrestrità alla Galleria San Luca (con Ugo Canci Magnano), quaderno n. 16, Verona maggio 1964. Testi tratti dalle recensioni di C. Segala (Il Gazzettino, Verona 19 maggio 1964), G. Cenna (Pensiero ed Arte, Bari maggio-luglio 1964) e J. Simeoni (Vita Veronese, maggio 1964)
R. Melloni, Emilio Culiat, quaderno n. 17, Verona Sera 13 maggio 1964
F. Salvotti, Un genere di prosa pittorica, quaderno n. 18, Fatebenefratelli, rivista mensile, Milano gennaio 1965
AA.VV., Fedeli alla “Terrestrità”, quaderno n. 21, Galleria Gian Ferrari, Milano aprile-maggio 1965. La mostra fu visitata da 25 critici che scrissero 19 recensioni su 16 quotidiani. Questi i nomi di alcuni recensori. M. Portalupi, M. Monteverdi, D. Villani, P. Zanchi, M. Lepore, A. Longa e L. Borgese, che sul “Corriere della Sera” del 30 aprile scrisse un lungo articolo intitolato: L’arte “convergente”. La teoria teologica del gesuita Pierre Teilhard de Chardin ha ispirato Emilio Culiat, un pittore friulano che espone a Milano i propri quadri.
AA.VV., Il ricupero della terrestrità (con Ugo Canci Magnano), quaderno n. 23, Galleria AAB, Brescia aprile 1966. Stralci dalle recensioni di E. Cassa Salvi e altre non firmate, con la trascrizione del testo in catalogo e una corposa citazione da Jurgen Claus.
AA.VV., Exposition dans le sens de la Terrestrité souhaité par Teilhard de Chardin, quaderno n. 24, Galerie Marcel Berheim, Paris avril 1967. Contiene l’autopresentazione di E.C. e stralci di numerose recensioni..
Quarta collettiva di pittura e scultura all’Istituto Europeo di Storia d’Arte, quaderno n. 25, Milano giugno 1967.
Citazioni da D. Valsecchi (Europa Unita, anno II, n.6), P. Zanchi (Giornale di Pavia), e una citazione, commentata da Culiat, tratta da “L’uomo a una dimensione” di H. Marcuse.
AA.VV., …è il momento della universalità…, quaderno n. 26, Galleria d’arte Il Salotto, Como ottobre 1967. Scritti di C. Sìrtori, G. Haussmann, F. Catania, M. Fagnani, M. Radice ed E.C.
G. Haussmann, La terra e l’uomo. Aspetti sociologici pittorici culturali, quaderno n. 27, intervento al Symposium della Fondazione Carlo Erba, Milano ottobre 1969
La pittura di Emilio Culiat vista dalla critica, quaderno n. 30, antologia compilata con stralci di scritti contenuti nei precedenti quaderni e, per il periodo 1969/70, dei seguenti: C. Segala (Il Gazzettino, Verona 3 marzo 1969), A. Schettini (Corriere di Napoli 23 marzo 1969), P. Radice (Roma 18 marzo 1969), P. Perrone (dal catalogo della mostra alla Galleria Vittoria di Napoli), G. Montenero (Il Piccolo, 6 maggio 1970).
S. Ceccato, Un nuovo atteggiamento: il terrestrico. L’uomo si difende, quaderno n. 31, Udine 1970.

Sulla Scuola di Aquileia

Titoli desunti dalla collezione emerografica conservata nei cartolari della Biblioteca di Aquileia e nella Biblioteca Comunale di Udine:

La Comune della pittura, Il Gazzettino 26 giugno 1973
Il grande presepio nella Basilica di Aquileia. Un segno di speranza, Friuli Sera 2 gennaio 1974
L.R., Aquileia: il presepio della Terrestrità, Friuli Sera 31 gennaio 1974
Terrestrità di Culiat, Corriere del Friuli 15 aprile 1974
M. De Stefano, Terrestrità di Culiat, Corriere del Friuli 15 aprile 1974
Dall’io al noi anche in pittura, Voce Isontina 13 ottobre 1974
P. Zilli, Il realismo della terrestrità, Friuli Sera ottobre 1974
E.C., Scuola e pittura corale, La Vita Cattolica 26 ottobre 1974
E. Nonini Mattiuzzo, La buona terra e gli artisti della “terrestrità” corale, Friuli Sera 30 ottobre 1974
Aquileia. La Torre di Babele, Corriere del Friuli febbraio 1975
C. Carano, La Scuola di Aquileia. Riflessioni, Friuli Sera 28 novembre 1975
G. Brussich, L’accessibile linguaggio della Scuola di Aquileia, Messaggero Veneto 2 dicembre 1975
M. De Stefano, L’Art Sociologique francese e la Scuola di Aquileia, Corriere del Friuli marzo 1977
D. Villani, La Scuola di Aquileia Terrestrità Corale, Parliamoci marzo-aprile 1979 e su Libertà di Piacenza
D. Cerroni Cadoresi, La Scuola di Aquileia a Milano, Il Punto, Udine 15 aprile 1979
L. Perissinotto, Il linguaggio di Culiat e la Scuola di Aquileia, Messaggero Veneto 8 agosto 1982
L. Perissinotto, Il linguaggio della Scuola di Aquileia, Il giornale del medico pratico, Udine dicembre 1982
D. Zannier, Terrestrità corale, Friuli nel Mondo, Udine marzo 1982
L. Perissinotto, Tutti bravi alla Scuola di Aquileia, Messaggero Veneto 16 luglio 1985
L. Damiani, Mostre d’arte, Il Gazzettino 15 luglio 1985
C. Sgorlon, Il sentimento appartiene alla natura, Il Gazzettino 3 marzo 1996
G. Ellero, La pittura come profezia, Tarcint e valadis de Tor, n.u. della SFF, Udine 1996
W. Gorni, Gemelli grazie all’arte, La Voce di Mantova 16 luglio 1997
V. R., Emilio Culiat e la Scuola di Aquileia, Il giornale del medico pratico, Udine settembre 1992
C. Sgorlon, Emilio Culiat, arte profetica. La terrestrità come ispirazione, Messaggero Veneto 10 ottobre 1993
M. Blasoni, Il pittore della terra, Messaggero Veneto 28 maggio 1998
M. De Stefano, Culiat, cantore della terra friulana, La Vita Cattolica 4 luglio 1998
M. Altran, Emilio Culiat e i suoi discepoli: è la “Terrestrità corale”, Il Gazzettino, Udine 11 settembre 1998
G. Ellero, Al ponte delle Vergini, Il Gazzettino, Udine 30 maggio 1999

Enciclopedie e cataloghi

Archivio Storico degli Artisti. Italia, vol. IX e XI
Enciclopedia monografica del Friuli-Venezia Giulia, vol. III, pag. 1788
Aspetti del lavoro nella pittura friulana, 1900-1960, Centro Friulano Arti Plastiche, Udine 1991
Le arti a Udine nel 900, a cura di I. Reale, Marsilio, Venezia 2000
G. Ellero, L. Damiani, G. Pauletto, Neorealismo friulano, CFAP, Udine 2001
G. Ellero, R. Del Mestre, S. Macor, 2500 artisti dall’Europa e dal Mondo, Centro Friulano Arti Plastiche, Udine 2004

Scritti di Emilio Culiat

Arte, artisti e vita pratica, saggio datato gennaio 1953, bozza in cartolare nella Biblioteca di Aquileia Vericidissima [sic] Historia di Messer Giulio detto Grumo, bozza di stampa in cartolare nella Biblioteca di Aquileia e nella Biblioteca Comunale di Udine, Misc. 1944, Inv. 173212, datato 1954
Pittura maccheronica, bozza di stampa nella Biblioteca Comunale di Udine, Misc. 1944, Inv. 173212, datata gennaio 1954
La crocifera e il pittore, bozza di stampa in cartolare nella Biblioteca di Aquileia Nove opere sul motivo del “filo spinato”, catalogo, 1956
Sensibilità e ragione, opuscolo illustrato con opere di E.C., E. De Cillia, S. Altieri e U. Canci Magnano, Arti Grafiche Friulane, Udine 1962
Le basi per un ritorno oggettivo riconoscibile…Biblioteca Comunale di Udine, Misc. 2490, Inv. 192871, 1962.
Dal filo spinato ad oggi, quaderno n. 1, Arti Grafiche Friulane, Udine 1963
Il ricupero della terrestrità, quaderno n. 12, Arti Grafiche Friulane, Udine 1964
Per l’artista: la vita associata, le condizioni sociali e quelle culturali sono tratti della personalità essenzialmente “privati”?, quaderno n. 17, dicembre 1964. Risposta a Raimondo Melloni per l’articolo critico, trascritto da “Verona Sera” del 13 maggio 1964
Il ricupero della terrestrità, quaderno n. 19, aprile 1965
Per un’arte di convergenza, testo del manifesto firmato con M. De Stefano, quaderno n. 20, Milano aprile 1965
Oltre l’equatore dell’individualità piena, quaderno n. 22, con stralci M. Bernardi e A. Dragone, Galleria Caver, Torino gennaio 1966
La realtà mutilata? Il mondo unidimensionale, quaderno n. 26, Como ottobre 1967
I pittori della terrestrità, Corriere del Friuli novembre 1974
Ragione biologica, Biblioteca Comunale di Udine, Misc. 2631, Inv. 331732, 1976
La biologia cammina, Biblioteca Comunale di Udine, Misc. 2646, Inv. 333552, 1979
Alla ricerca di un linguaggio corale, Corriere del Friuli dicembre 1979
Il “noi” al posto dell’“io”, Corriere del Friuli febbraio 1981
Ritorno al Centro, Aquileia giugno 1986
“2000” Il Nuovo Evo, con articoli di C. Sgorlon e A. Musiani, Aquileia 1993

NB. I primi quattro titoli di questa sezione sembrano bozze di stampa per una rivista, ma probabilmente si tratta di testi battuti in linotype e tirati al torchio in poche copie da distribuire agli amici. Non figurano, infatti, come estratti né nella Biblioteca di Aquileia né nella Comunale di Udine.